[M. Capozzi] A Milano sembra si sia fermato il tempo. Poca gente per strada. Sono le 21, è venerdì. Dovrebbe aver avuto inizio l’atteso weekend e invece nel quartiere Isola – uno dei quartieri della movida culturale meneghina, per intenderci – c’è solo ghiaccio. E neve. E freddo. Silenzio. Percorrendo a piedi via Borsieri, tuttavia, si fa eco un suono di bacchette. Progredisce in eco, acrobatico. Un drumming circense, ora sempre più insistente, sempre più vicino, sempre più deciso.
Tende di velluto bluette. Atmosfera soffusa in bianco e nero, con le gigantografie dei più grandi: spicca fra tutte quella di Davis con le sue lenti scure. Saletta intima, attenta, di amatori. Faretti puntati al centro del palco. Protagonista indiscusso della scena è lui, Billy Cobham. Volto plastico, bandana–rambo, jeans rossi. È preciso, veloce, colorato. I suoi ritmi sono giallo oro, quello del mare di Panama, e rosso acceso, dei cuori afroamericani. Intorno è il blu oltremare dell’estate ai Tropici. Fa subito contrasto col freddo di Milano. Al Blue Note, stasera, vive un’altra stagione. La Billy Cobham Band riscalda, con grinta, ispirando un viaggio che rimbalza tra i grattacieli fumosi di New York. Si sperimentano fraseggi che ricordano i sofismi stilistici di Herbie Hancock e l’eleganza scura di George Benson. Colpo di polso, e si toccano i voli caraibici, suon di maracas e oasi arabe negli arpeggi legatissimi di un violino che cavalca verso il Midwest. L’hammond sovrasta il resto e un po’ distorce. Le chitarre sono possenti, ed è sapiente l'incastro tra jazz, elettronica e rock. E poi c’è il pubblico, che accompagna con divertito entusiasmo la musica, forse con un po’ di nostalgia per la dance anni Settanta e Ottanta.