[E. Augusti] (Get) loose per dire abbandonarsi, lasciarsi andare, sognare improvvisando (D. Rea). (Get) loose, per giocare d’assonanze col nome di Gianluca Lusi (sax). Produzione Tosky Records targata 2013. Otto tracce che si lasciano ascoltare per sobrietà e gradevolezza, anche dove si inerpica il virtuosismo più spinto. Accanto alla voce fluttuante di Lusi, quella a tinte forti di Joel Holmes al piano. Dagli arabesque debussyani di “Renèe” alle ritmiche coinvolgenti di “New Beginnings”, Loose giunge alla title track, e racconta fedelmente l’intenzione del progetto. Sonorità dense, ora sostenute ora sfaldate da un pianismo articolato e corrosivo, dinamico e sempre presente. Due personalità diverse, quella di Lusi e Holmes, combinate audacemente in un incastro che funziona e convince. Ammiccante e divertente la lettura di “Stardust”.
Da quando le ultime piogge hanno lasciato il cielo e si sono fermate in terra - cielo pulito, terra umida e tersa - la chiarità della vita che insieme all'azzurro è salita in alto e, nella freschezza per l'acqua che è stata, ha gioito in basso, ha lasciato un suo cielo nell'anima, una sua freschezza nel cuore. Siamo, anche se non lo vogliamo, schiavi del momento, dei suoi colori e delle sue forme, sudditi del cielo e della terra. Perfino colui che più si rintana in se stesso, disdegnando ciò che lo circonda, costui non si rintana nello stesso modo quando piove o quando il cielo è sereno. Oscure mutazioni, forse avvertite solo nell'intimo dei sentimenti astratti, si verificano perché piove o perché ha smesso di piovere, si avvertono senza che le avvertiamo, perché senza sentirlo abbiamo sentito il tempo.
Ognuno di noi è più di uno, è molti, è una prolissità di se stesso.
F. Pessoa, Il libro dell'inquietudine, 15 (20), 30.12.1932 (Feltrinelli, 2000)
[sel. E. Augusti]
[E. Augusti] 10 novembre, domenica mattina, Aperitivo in concerto. La rassegna milanese del Teatro Manzoni ospita l’Aaron Parks Trio. Unica data italiana per la formazione che si completa con Thomas Morgan al contrabbasso e RJ Miller alla batteria. Un concerto ristoratore e l’occasione per presentare al pubblico una session che concilia il protagonismo di Aaron Parks (appena uscito per la ECM il suo solo, Arborescence) con la diligenza minimalista di Morgan e Miller.
Parks è lì, a sbriciolare frasi su un tappeto di armonie quasi immobili, e a spingerle in avanti con un soffio di voce. Quell’accenno, che accompagna ogni tema, è una ruga che segue graffiante l’espressione di un volto composto e sereno. È una crescendo di suggestioni. Resta il passo della batteria, ora felpato e sordo, ora strisciato. Il contrabbasso è in continua ricerca, segue la scia, ricalca le orme, ripercorre in un’eco disciplinata e composta ogni tema. Intro, e si distende un tune leggibilissimo, seguito pedissequamente dal contrappunto di Morgan. Avvita swingante un nuovo tema. Morgan ci infila un assolo labirintico e spigoloso. La batteria riconquista spazio, misurata e ironica, delicata anche negli accenni che picchettano un po' marchin’. Opaco e quasi svogliato negli assoli, Miller controlla i tempi e recupera carattere nell’interplay. Si cambia registro, di nuovo calato in atmosfere dense e ovattate che trasbordano gli inquadramenti rigidi del tempo. Parks si inchioda all’ostinato del basso, e ci fissa tutto un ambiente armonico. È una passionalità rassicurante quella che si riconosce già dai primi accenni di “Everything I love”, «Because I love everything», aggiunge Parks, didascalico. Uno swing pacato, che si insinua sottopelle, conciliante. Un binario che dondola, fino a ingranare un nuovo tema, segmentato, intercettato subito dal walking stretto del contrabbasso. Chiude cadenzato, rigoroso, disciplinatissimo, senza però cedere alla tentazione dell’ultimo colpo di basso. L’enciclopedia di Parks testa il ternario, ricco di lirismo, composto e personale. Basa un nuovo binario, ed è una formula caratterizzante, di un white jazz a modo, che si ritrova in ogni frammento. «I played a solo piano, but I don’t remember what it was», confessa giocando col pubblico. “Cartoon Element” chiude, e si corre verso il finale. Disgrega e frammenta, per poi trovare stabilità in accordi a piombo superpedalizzati. C’è un formalismo di impostazione al quale Parks torna sempre, riconoscibilissimo, uno spirito classico che disciplina ogni suo istinto deformante. E il gioco a tre funziona con una naturalezza devastante, liscio, imperturbabile, disinvolto. Molto più che democratico.
Straordinari questi quattordici ragazzi. Loro sono i Barbatuques, un unico corpo che batte a ritmo di samba. Body percussion? Ecco cosa si può fare!
29 aprile, h. 14.30 - [E. Augusti] La fame comincia a farsi sentire. Risveglio comodo, questa mattina. Ci sta, dopo le danze etiopi di ieri sera in piazza Castello col grande Mulatu Astatke. Pensiamo bene di raggiungere il Cafè Des Arts, dove ci attendono gli Improbabel. Duo personalissimo, Erika Sollo (voce) e Michele Anelli (contrabbasso). Un esperimento di musica nuda intenso, intimo. Si gioca coi suoni secchi e non intonati del contrabbasso, mentre la voce s'insinua, morbida. Effetti ed echi di profondità. Elettronica e noise, dalle atmosfere sinistre di Komeda ai respiri di Wheeler. Escursioni spazio-temporali che arrivano fino al folk giapponese, con una preziosa interpretazione di "Sakura".
29 aprile, h. 16.15 - Dal Cafè Des Arts al Circolo dei Lettori. Musica e parole si incontrano in un esperimento di blues in italiano. Prova a raccontarsi Francesco Forni, alla chitarra. Ci dice dell'album con Ilaria Graziano, e del suo approccio creativo. Scambio di impressioni e curiosità col Direttore Zenni e inforca la sua vecchia Höfner. Omaggio a Django Reinhardt, "Minor Swing", e inizia il suo personale, «entrare può voler dire non uscirne più». «Ci siamo rivisti senza incontrarci...in un giorno qualunque...sarò io ad incontrarti...perché fai parte dei miei vizi». Blues.
29 aprile, h. 17.12 - Ci trasferiamo un isolato più avanti. In Piazzale Valdo Fusi si celebra la collaborazione del Torino Jazz Festival con il Festival Rendez-vous de l'Erdre di Nantes. Sul palco, i Sidony Box, Elie Dalibert (sax), Manuel Adnot (chitarra) e Arthur Narcy (batteria). Scariche di adrenalina pura. Ne sa qualcosa Narcy. Fisico e brutale, taglia in due l'aria con la precisione di un chirurgo e aggancia fermo le spirali in loop della chitarra noise di Adnot. Dalibert resta strutturato, ma strilla un motivo ancora fortemente evocativo. C'è una cura maniacale per il dettaglio, e nell'improvvisazione niente è lasciato al caso. Le linee melodiche respirano, sospese. Magnetici.
29 aprile, h. 18.10 - Restiamo qui. Cambio palco, ed è il suono degli ottoni a precedere l'arrivo della Gianluca Petrella Cosmic Band. Il Piazzale si trasforma. Petrella è lì ad animare, ordinare, caricare un groove radioattivo. Potente e solida nei suoi labirinti onirici, la Cosmic Band sa dove cedere alle istigazioni del suo leader. Percorre il palco, a passo deciso, e il trombone ne mima il movimento. La prima linea è compatta, come una trincea, impenetrabile. Grande spazio ai synth di Alfonso Santimone, che raccolgono le suggestioni electro di un jazz esplorativo e audace. Il coinvolgimento è totale.
29 aprile, h. 20.50 - Il cioccolato non basta. Via Po di gran passo, e sosta obbligata per un kebab al volo. Tra pochi minuti per la sezione "Main" il palco di Piazza Castello ospiterà Miles Smiles, il progetto a firma Wallace Roney (tromba), Rick Margitza (sax), Joey DeFrancesco (organo), Larry Coryell (chitarra), Ralphe Armstrong (basso elettrico) e Alphonse Mouzon (batteria). Loro sono cinque giganti, perfettamente a proprio agio sul main stage del TJF. Ascoltandoli, e guardandoli, ti viene in mente una di quelle scene tipicamente maschili, di uomini sprofondati in divani di vecchia fabbrica a guardare l'ennesima partita di football, sorseggiando una birra ghiacciata e commentando a voce alta ogni azione. Di quegli uomini che urlano "Fallo!" e lo scambio potrebbe continuare per delle ore, per dei giorni, a discutere del se ci sia stato o meno. Ecco cos'è l'interplay tra Roney e i suoi, un rimpallo naturale di obiezioni precise e cariche di passione. C'è vigore, energia, intimità, familiarità, e un pensiero forte al Miles degli anni Settanta. Mouzon macina chilometri, marcando ogni passo sullo splash. Jones carbura, e traccia solchi profondissimi. Conversa, DeFrancesco, e lo fa con la sufficienza di chi sa già come va a finire. Braccio sinistro sciolto, appeso sul fianco, mentre la sua mano destra agguanta gli argomenti più insoliti ed efficaci, in un funk esplosivo che non teme confronti. C'è tanta ironia, e un genio poderoso e dirompente. Regalano una ballad da bis, a sorpresa, sul tema di "Time after Time". Splendidi.
29 aprile, h. 23.00 - E la buonanotte del Fringe sul lungofiume. Boltro.
30 aprile, h. 02.41 - E se andassimo a dormire? Buon International Jazz Day a tutti!
[ph. E. Augusti/M. Capozzi]
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26 aprile, h. 18.20 - [E. Augusti] Calvino diceva che la fantasia è un posto dove ci piove dentro. Qui a Torino la fantasia sembra essere ovunque e la pioggia, per fortuna, non vuole farle compagnia. Pronti per l'edizione 2013 del Torino Jazz Festival firmato Stefano Zenni. Nonostante il cielo grigio, l'aria è mite, e la Mole svetta. Se «la musica è l'inizio di qualcosa», quello che sta per cominciare qui è una festa. Te lo suggeriscono i temi jazz che ti piombano in testa mentre passeggi sotto i portici di Via Garibaldi. Te lo raccontano le atmosfere blue di una tromba che al tramonto scivola lenta tra i passanti e ti guida verso il posto giusto. Te lo urlano i passi cadenzati di una marching band che prova in un angolo di Piazza Vittorio e che ti viene a trovare mentre guardi, sorpreso da un insolito contrabbasso, le vetrine di una pasticceria. Sono da poco passate le 18.00, e mentre l'Urban Center di via Milano si popola di figure più o meno sconosciute di chi il jazz prova a raccontarlo, da piazzale Valdo Fusi arriva il jazz che si fa, ricordando Gillespie e Mingus. Let's go!
26 aprile, h. 20.21 - Ci spostiamo al Blah Blah di via Po. «Ora hai capito da dove viene il suono?», chiede lui spavaldo alla ragazza che le sta a fianco. Lo spazio ibrido è un'esplosione di gente. Il buio sfuma i profili, e le voci di Boltro, Di Castri e Roche ti arrivano dritte in faccia dalle proiezioni che si stagliano sul fondo del locale. Zero contatto visivo (che peccato!) La robustezza percussiva di Roche sostiene con vigore l'interplay, per poi sfilacciarlo sul ride. Di Castri lo segue ragionando di armonici, e porta Boltro a distendere. Il contrabbasso si fa elettrico, pedalizzando nuove linee di una sinuosità plastica. L'interplay monta, fittissimo. Roche e Di Castri si marcano a uomo, mentre Boltro si svincola in un virtuosismo leggero, che trova quiete in innocue cadenze tonali. Ritorna il delirio percussivo. Un punto d'appoggio è irresistibile ma improbabile da trovare. Roche ha una voglia brutale di raccontare. Si rintana nell'onomatopea, e da lì suggerisce giochi che sanno divertire. E' una macchina da scrivere. Straordinaria l'intesa con De Castri. Boltro fa da diaframma, ed è un'enciclopedia di stile. Uno spettacolo unico per una semplice «rimpatriata» tra amici: «saliamo sul palco e suoniamo», come non accadeva da più di vent'anni.
26 aprile, h. 21.05 - Di corsa verso Piazza Castello. Enrico Rava Quintet & Orchestra del Teatro Regio di Torino. Accanto a Rava, Roberto Cecchetto (chitarra), Giovanni Guidi (pianoforte), Stefano Senni (contrabbasso) e Zeno De Rossi (batteria). A dirigere il Rava On The Road c'è Paolo Silvestri. Ecco come la musica classica incontra il jazz. Il compromesso non costa neanche poi tanto. Si disciplina il jazz? Si corrompe la forma? Al di là della solita retorica, dei misticismi e delle note a margine, il Rava On The Road funziona, e funziona da sé. Perché Rava, perché le musiche di Rava, perché gli arrangiamenti di Silvestri, perché il profilo del Quintetto, perché l'Orchestra del Regio. E potrebbe bastare così. E' un mélange d'eleganza ordinante e spinta improvvisativa che si lascia cogliere già dal Preludio. I violini imbastiscono degli ostinati irregolari che ossessionano e caricano nel moto ondoso degli accenti, portandosi dietro gli ottoni, le percussioni, fino alla chitarra "classicamente acida" di Cecchetto. E' l'acme, prima delle linee sensuali e morbide del tempo secondo. E' una combinazione di universi espressivi che convince. Anche la pioggia.
[ph. E. Augusti/M. Capozzi]
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[E. Augusti] Lecce, 5 aprile 2013, e il Teatro Politeama Greco sposa l’incontro con la tradizione partenopea. Renzo Arbore e L’Orchestra Italiana regalano una serata spumeggiante. Grande l’entusiasmo e la partecipazione. Arbore accoglie le nostalgie del pubblico leccese e regala la magia della dolce Napoli. Non c'è mielosità stucchevole, ma l’esperienza del maestro che sa cosa valorizzare del suo racconto. Imprevedibile e goliardico, cattura tutti con la sua genuina ironia. È una teatralità coinvolgente che non risparmia nessuno, men che meno i suoi fidati compagni di viaggio. L’età non è un mistero, ma non si sente. E se si sente, ci giochiamo su. Arbore è un maestro nei panni del garzoncello swingante. Gli stanno a pennello. Neanche una grinza in quell’entusiasmo da giovinetto senza età. «Poche note, ma quelle giuste». Ed è al pianoforte che regala, in quella pioggia leggera dedicata a Modugno, il blues più intimo. Scorre alle spalle dell'Orchestra un cinema di ricordi. È uno show nel senso più nobile. Un attimo, e la dolce Napoli si fa verace. Murolo e Carosone la fanno da padrone. I musicisti dell’Orchestra sono tutti lì, protagonisti accanto ad Arbore che non perde anzi occasione per tirarli dentro al gioco e spingerli oltre la linea. La musica asseconda i caratteri di ciascuno. È cucita addosso alle loro personalissime suggestioni. E l’improvvisazione ci va a nozze, in uno scambio osmotico che fa spettacolo, a tutto tondo. Gustose le declinazioni fuori stile, dal reggae alle contaminazioni afro, senza risparmiare il parodico. È un girotondo, è un gioco di bimbi senza età. Mascheramenti, colpi di scena e il «coro di Lecce», un po’ timido in prima battuta, ingessato dal velluto delle poltrone in seconda, esce finalmente allo scoperto, totalmente dentro la scena a celebrare una "Luna rossa" che non tramonta. W l’Orchestra Italiana! W Arbore!