[E. Augusti] Se dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna (!), dietro un bel festival non possono che esserci tre grandi virtù, femminili pure loro: la determinazione, la cura, la passione. Ecco come si può arrivare a ripetere un piccolo grande successo, per la trentaquattresima volta nella sua storia. Qualche settimana fa eravamo a Ivrea, a celebrare l’Open Jazz Festival edizione 2014. Un festival dedicato ad Amiri Baraka, alla profondità del suo pensiero e all’onestà della sua esperienza di vita. Un festival che ha riconquistato il suo meritato spazio grazie allo spirito di abnegazione di Massimo Barbiero, della crew del Music Studio – Ivrea Jazz Club e all’attenzione degli sponsor ai quali più volte, e a buona ragione, è andata la gratitudine dell’organizzazione e del pubblico.
Ivrea è silenziosa, d’un silenzio che sa d’attesa e anticipa il rumore. E se quello della battaglia delle arance si è riassopito da poco, un altro rumore, comunque di tradizione, si è appena risvegliato. È quello del jazz, che in una quattro giorni di fine marzo e di timidissima primavera ha raccolto le voci dei protagonisti, chiamati a raccontarsi in musica tra Ivrea, Banchette e Bollengo. Enten Eller, Javier Girotto, Paolo Fresu, Daniele Di Bonaventura. Quando arriviamo finalmente anche noi de La Orilla ad aspettarci ci sono Marta Raviglia e Massimo Barbiero. Teatro Giacosa di Ivrea. A introdurre è Claudio Morandini, che ci spiega la storia e la ragione di quei testi, messi in musica e interpretati al piano e all’elettronica dalla voce plastica della Raviglia. Su un tappeto di drums, gongs, tabla e marimba, sapientemente intrecciati a misura dal gusto di Massimo Barbiero, si svolge un altro racconto, quello dei corpi delle danzatrici Francesca Cola e Giulia Ceolin. Tensioni, distensioni, e una “Filomena…da gli amorosi lacci uscita”. Si parla, si canta, si suona, si danza la “Gabbia”. Interessanti suggestioni quelle della Raviglia, magnetica la costruzione delle sue architetture vocali, verticalizzate vertiginosamente nei loop.
Quando salgono sul palco Hamid Drake e Antonello Salis, il tempo si contrae. Strabordante, incontenibile percussività, forse eccessiva. Non ci sono distensioni, non c'è accenno di respiro. Salis al pianoforte è esplosivo. Travolge, magmatico, i drums di Drake che determinati e lucidi si infiltrano, si insinuano, alla ricerca continua di una camera d’aria che lasci spazio al tempo. C'è scambio, e grande tensione. E' il suono a diventare materia plastica, questa volta, materia da modellare e corrodere. Salis agguanta e strozza ogni forma, per poi allungarsi in uno spasmo alla fisarmonica. Quando si smorzano le asprezze, Drake regala un quadro personalissimo, che compensa e riporta ad un intimismo pulsante.
Lisa Gino e le sue selezioni di Amiri Baraka funzionano a interruttore. Si gioca di rimbalzo col presentatore, Daniele Lucca, ma le suggestioni blues sono forti, preludio ideale per le atmosfere anni Settanta degli Oregon. Splendide diapositive, grande rispetto ed eleganza di suono, fraseggi morbidi e un distillato di armonici. Ralph Towner riabilita la piacevolezza dell’ascolto, e tra i suoi temi più raffinati e il gusto eccentrico dei noise regala un sigillo dorato al festival.
Il nostro grazie speciale va all'ospitalità di Massimo Barbiero e alla disponibilità dei volontari, e di Michele Bena in particolare. Al prossimo anno!