[E. Augusti] 10 novembre, domenica mattina, Aperitivo in concerto. La rassegna milanese del Teatro Manzoni ospita l’Aaron Parks Trio. Unica data italiana per la formazione che si completa con Thomas Morgan al contrabbasso e RJ Miller alla batteria. Un concerto ristoratore e l’occasione per presentare al pubblico una session che concilia il protagonismo di Aaron Parks (appena uscito per la ECM il suo solo, Arborescence) con la diligenza minimalista di Morgan e Miller.
Parks è lì, a sbriciolare frasi su un tappeto di armonie quasi immobili, e a spingerle in avanti con un soffio di voce. Quell’accenno, che accompagna ogni tema, è una ruga che segue graffiante l’espressione di un volto composto e sereno. È una crescendo di suggestioni. Resta il passo della batteria, ora felpato e sordo, ora strisciato. Il contrabbasso è in continua ricerca, segue la scia, ricalca le orme, ripercorre in un’eco disciplinata e composta ogni tema. Intro, e si distende un tune leggibilissimo, seguito pedissequamente dal contrappunto di Morgan. Avvita swingante un nuovo tema. Morgan ci infila un assolo labirintico e spigoloso. La batteria riconquista spazio, misurata e ironica, delicata anche negli accenni che picchettano un po' marchin’. Opaco e quasi svogliato negli assoli, Miller controlla i tempi e recupera carattere nell’interplay. Si cambia registro, di nuovo calato in atmosfere dense e ovattate che trasbordano gli inquadramenti rigidi del tempo. Parks si inchioda all’ostinato del basso, e ci fissa tutto un ambiente armonico. È una passionalità rassicurante quella che si riconosce già dai primi accenni di “Everything I love”, «Because I love everything», aggiunge Parks, didascalico. Uno swing pacato, che si insinua sottopelle, conciliante. Un binario che dondola, fino a ingranare un nuovo tema, segmentato, intercettato subito dal walking stretto del contrabbasso. Chiude cadenzato, rigoroso, disciplinatissimo, senza però cedere alla tentazione dell’ultimo colpo di basso. L’enciclopedia di Parks testa il ternario, ricco di lirismo, composto e personale. Basa un nuovo binario, ed è una formula caratterizzante, di un white jazz a modo, che si ritrova in ogni frammento. «I played a solo piano, but I don’t remember what it was», confessa giocando col pubblico. “Cartoon Element” chiude, e si corre verso il finale. Disgrega e frammenta, per poi trovare stabilità in accordi a piombo superpedalizzati. C’è un formalismo di impostazione al quale Parks torna sempre, riconoscibilissimo, uno spirito classico che disciplina ogni suo istinto deformante. E il gioco a tre funziona con una naturalezza devastante, liscio, imperturbabile, disinvolto. Molto più che democratico.