[Lecce] Suggestiva serata, ieri, alla Fondazione Palmieri. Roberto Ottaviano ha presentato il suo nuovo lavoro, "Astrolabio", per Dodicilune Edizioni Discografiche e Musicali. Un gruppo d’eccezione per un progetto che combina al meglio esperienza e ricerca: accanto al sax di Ottaviano, le voci straordinarie e caratterizzate del clarinetto di Gianluigi Trovesi, del trombone di Glenn Ferris e della tuba di Michel Godard. Profondità, circolarità esplorativa, reminiscenze klezmer, e tutta la bellezza dell’incontro, del dialogo estemporaneo, della visione condivisa. Un viaggio senza meta, al buio, con pochi strumenti tra le mani, preziosissimi. Una preghiera, una contemplazione da vivere ad occhi chiusi per goderne a pieno tutte le suggestioni [clicca qui per il livediary]
[E. Augusti] Ci sono strumenti che non hanno un timbro, ma una voce. Quando ne incontri uno e lo ascolti, dimentichi il confine tra strumento e strumentista. Quello che ti resta è il racconto, vivo e pulsante, di una storia. Sospiri e battiti è questa storia, la storia di un organetto, e della sua anima pneumatica. Donatello Pisanello, «l’inventore di suoni che reinventa l’organetto» (V. Santoro), ritrova in Sospiri e battiti (Fonosfere Records – Dodicilune Records 2012) una scrittura fortemente evocativa, fatta di tensioni e intenzioni affascinate dallo scambio naturale col contrabbasso di Angelo Urso, il tamburello di Lamberto Probo e la viola da gamba di Pierpaolo Caputo. «Non sentirete cose già sentite», preannuncia Vincenzo Santoro alla presentazione dell’album del 26 dicembre scorso al Palazzo Marchesale di Taviano (Lecce), e l’ascolto gli dà ragione. Sospiri e battiti è la metanarrazione di un viaggio al limite tra il fisico e l’onirico. Ciclicità insistenti, groove roventi e sonagli crepanti, così dai capogiri di una “Serenata senza effetto” alle apnee di “La scorza e il nocciolo”. Sono poliritmici i giochi di “Sospiri e battiti”, e preparano i miti tepori di “Quel giorno se verrà”. Perforanti le insistenze de “Il crimine dell’organetto”, intensi gli spettri cromatici di “Tramonto ionico”. “Valzerosa” scivola sulle distensioni scure e avvolgenti dei larghi fraseggi del contrabbasso, mentre lo stacco brioso dell’organetto imbastisce ogni trama. Apre e chiude nelle divagazioni modali e si infiltra, plastico, in un immaginario condiviso fatto di lanternini, sguardi ammiccanti e gonne bianche. Splendido. “L’ultimo treno vuoto” monta dalla terra. Magmatico il contrabbasso che riaffiora, cinge e costringe i flutti aerei dell’organetto. Chiudono le sospensioni mistiche dell’attesa, “Aspettando la luna”. «Ogni brano è dominato da un’emozione e da tutte le variazioni possibili di quell’emozione…continuo a sentirne la meraviglia» (G. Cecere). Arricchiscono il booklet i disegni, preziosi e coloratissimi, dello stesso Pisanello. Da scoprire.
Straordinaria la forza evocativa del bandoneon. Cosa dire se a quel suono si aggiunge una chitarra a dieci corde, un solco di basso e uno struscio di percussioni? Il risultato finale non potrebbe essere più suggestivo. Estratto da Canto della Terra (Dodicilune, 2006), “Tarantella per Ralph” restituisce il film di una terra, del suo sole, delle sue contraddizioni. Scorre. Marca allusivo l’appoggio e distende, circolare. Daniele di Bonaventura (bandoneon), Marcello Peghin (chitarra), Felice Del Gaudio (contrabbasso) e Alfredo Laviano (percussioni).
[E. Augusti] Miles contava la tredicesima nota. Il silenzio. Suite 24 (Dodicilune, 2008) apre sospesa, in bilico su quella tredicesima nota, per fluire, suggestiva, nei pieni impressionistici di tutto un mondo di sonorità pulsanti a firma Giacomo Mongelli (drums, percussions), Gianni Lenoci (piano, flute, percussions), Giovanni Maier (bass) e Gaetano Partipilo (saxophones), senza reali cesure. Solo un antro di ristoro a metà percorso con Incontro, poi giù fino allo standard dedicato di The Wedding. La suite prende forma e rastrella colori. Distaccato, Meltin’Pot raccoglie tutto uno spazio emozionale, poligonalmente definito dalle linee spezzate del sax lunatico di Partipilo, ora netto nelle free-lines, ora di stilema caldo e accogliente nelle divagazioni educate. Estatico, è sempre lui, Partipilo, ad accogliere l’ingresso della sezione ritmica. Lenoci è ricco e brillante. Spalma, ampio, il bass di Maier, mentre Mongelli incornicia, morbido, ogni sezione. Ispido e allusivo Fotogrammi apre, reale, la suite. È un’attesa che si mastica sin dai primi spazi, nei tempi sospesi di Maier e corre, feroce, sulla schiena delle sue arcate acide. Lamenta, indagatrice, un’idea obliqua. In the Darkness le voci si intendono in un ambiente surreale, dove il tempo è distanza fisica e l’angoscia suona i vuoti. Bellissimi gli effetti in reverse di Lenoci. Quasi un cello Maier. Rallenta. Incontroè la stazione. Dopo Meltin’Pot è qui che la suite trova pace. Distende e dilata le sue intenzioni più intimistiche. Si riprende terreno con Frenesia. A rincorsa, libere e animate le discorsività sax-piano-bass si sfiorano appena, leggerissime, in un vortice caotico che divelte il pensiero. Suite 24 chiude. Lenoci è liquido, deborda e invade, appena contenuto da Partipilo. Maier direziona le spinte, sensibile, acuto, discreto. Inquiete le percussioni di Mongelli. La complessità di quello che è effettivamente il brano di chiusura della suite si manifesta nel timing. Largo, permette all’idea di svilupparsi in tutta la sua eccentricità, descrivendo istantanee e colorando i dialoghi più impervi e improbabili tra le voci. Un teatro dove l’improvvisazione è tanto audace quanto registicamente misurata, e funziona. La sperimentazione si fa elemento centrale della narrazione, collezionando un bestiario di gran classe. Raffinato. È un delirio estremamente lucido, che impressiona senza sconvolgere, e che anzi incuriosisce e accompagna, in un viaggio insolito dove l’irrazionale si tocca e si mescola al resto. Uno space jazz vivo che anima e si anima di mostri improvvisati, che terrorizzano per la loro insulsa e algida bellezza. Orienta il corale della coda, alleggerito dal registro alto. Disperde le tensioni della suite e regala un finale da favola, come The Wedding raccomanda. L’intesa con la suite africana di Abdullah Ibrahim è forte. Intenso.
[E. Augusti] Desiderata, quando «sorge la pulsione dell’animo che porta al desiderio. Desiderio di voler mettere un punto fermo che non è un punto di arrivo bensì punto di partenza […] Desiderio profondo di un’Anima di voler comunicare con le altre Anime». È così che Stefano Clemente presenta il suo nuovo lavoro per la Dodicilune (2011). Desiderata nasce da un’esigenza d’amore. Un messaggio «puro e positivo» che vuole arrivare dritto al cuore di chi ascolta. E direi che Clemente c’è riuscito, e il messaggio è arrivato, forte e chiaro. La sua chitarra ha un timbro asciutto e pulito, come lo stile che descrive. Legati avvolgenti e un fraseggio a lenzuolo che copre leggero le spigolosità del contrabbasso di Dario Di Lecce. E il contrasto è lì, nella dialettica di impasti timbrici lontani per carattere e colore. Il missaggio privilegia le morbide sinuosità della chitarra, lasciando nell’ombra delle retrovie la sezione ritmica, che soffre non poco la distanza. La batteria di Fabio Delle Foglie carica vaporosa nei tempi medi senza mai tradire lo spirito dell’album. Tutto è pacato, ovattato, denso. Il protagonismo di Clemente tiene alta l’attenzione sulla narrazione: a volte imposta dai volumi, si interrompe solo nei giochi felici di call-and-response col sax di Renato D’Aiello. Tre i brani a firma Clemente. “Desiderata”, in particolare, è di una bellezza pervasiva (non a caso la title track dell’album - in ascolto). Un'intro tenerissima e un 4/4 che raccoglie, liscio, tutta la sensualità avvolgente del sax di D'Aiello. Un po’ meccanici i trade con Delle Foglie in “BBBlues”, quasi un esercizio compositivo. Elegante l’intensità di “Soul Eyes” (Mal Waldron). “Speak No Evil” (Wayne Shorter) è la rivincita di Di Lecce, timidamente progressive. Culla senza sorprese “My Romance” (Richard Rodgers), discorsivo, e si lascia cantare fino all’ultimo battito. Liquido.