[E. Augusti] Ha senso mettersi a scrivere il report di una session a quasi due settimane dal live? Certo che no. Ma forse riacquista un senso provare a raccontare un momento di musica che, in quanto tale, resta. Roma. Nella “cantina” del 28DiVino Jazz fermenta For Life. Fermentazione alcolica per una produzione Tosky Records targata 2013 che segna il debutto da leader del contrabbassista Dario Germani. Accanto a lui, Stefano Preziosi al sax contralto e Luigi Del Prete alla batteria. Tre personalità diverse che si incontrano, per raccontare e raccontarsi la vita. Magnetico Del Prete, nei suoi cambi d’abito. Aggressivo, disarticolato, intenso, aggancia a morsi ogni frammento, senza perdere di petto il disegno, sempre chiaro e vivo. Gli scorre tra le mani, a punta di bacchetta, a filo di spazzola. Preziosi racconta, ora liquido, ora sillabato. Special guest, Aldo Bassi alla tromba, spinge, di sincope, e trascina. Si inseguono, Bassi e Preziosi, per poi tornare all’unisono, sempre su linee scomposte, riconoscibilmente monkiane, da percorrere con gusto. E tutto sembra spegnersi all'improvviso, al “Crepuscule with Nellie”, un attimo prima che Germani apra la sua “Lullaby for Bianca”. Presenza discreta, la sua, ma solida e rassicurante, anche quando puntella e sfida l’assolo, ad occhi chiusi. “Mister GT” è la dedica al maestro Tommaso. Smania gli assoli Del Prete, sempre da protagonista. Primo e secondo piano, quel che appare, quel che resiste, quello che c’è. La vita e le sue contraddizioni, come in “XY”. Gli opposti che si attraggono e si compenetrano. Ritorna Bassi, e si scivola verso il finale, sempre sui fraseggi distesi di Germani. Un racconto onesto il suo, come sa esserlo un buon vino. For Life, Good Life!
E i tuoi fantasmi ti verranno a cercare. TI troveranno, e ti strapperanno i vestiti di dosso. E non servirà piangere, non servirà gridare. Perché sarai sola, e nulla potrai contro te stessa, perché hai insegnato tu a quell'anima cos'è la forza, e ti dimostrerà che ha imparato bene la lezione.
Eliana Augusti
Noi ci allontaniamo, e il tempo passa, e ci dimentichiamo di sentirci perché succedono altre cose e piano piano tutto sbiadisce,e rimane solo questa sensazione di malinconia per aver lasciato cadere una cosa bella, averla fatta appassire solo per incuria, per distrazione, per aver pensato “beh, lo faccio stasera, oppure lo farà lei, o insomma qualcosa succederà”. E invece poi non succede mai niente, tutto viene dimenticato e l’ultima cosa che penso, in quel sogno, è sempre: “che peccato, ho perso qualcosa di bello e non ricordo più cos’è”.
[sel. E. Augusti]
Sì, ero infatuata di te [Emile]; lo sono ancora. Nessuno ha mai suscitato in me reazioni fisiche così intense. Ti ho piantato perché non potevo sopportare di essere un capriccio passeggero ... Prima di donare il mio corpo, devo donare i miei pensieri, la mia mente, i miei sogni. E tu non volevi nessuna di queste cose.
S. Plath, Da una lettera a Eddie Cohen, da Diari (Adelphi, 2011)
Vidi la mia vita diramarsi davanti a me come il verde albero di fico del racconto. Dalla punta di ciascun ramo occhieggiava e ammiccava, come un bel fico maturo, un futuro meraviglioso. Un fico rappresentava un marito e dei figli e una vita domestica felice, un altro fico rappresentava la famosa poetessa, un altro la brillante accademica, un altro ancora era Esther Greenwood, direttrice di una prestigiosa rivista, un altro era l'Europa e l'Africa e il Sud America, un altro fico era Constantin, Socrate, Attila e tutta una schiera di amanti dai nomi bizzarri e dai mestieri anticonvenzionali, un altro fico era la campionessa olimpionica di vela, e dietro e al di sopra di questi fichi ce n'erano molti altri che non riuscivo a distinguere./ E vidi me stessa seduta sulla biforcazione dell'albero, che morivo di fame per non saper decidere quale fico cogliere. Li desideravo tutti allo stesso modo, ma sceglierne uno significava rinunciare per sempre a tutti gli altri, e mentre me ne stavo lì, incapace di decidere, i fichi incominciarono ad avvizzire e annerire, finché, uno dopo l'altro, si spiaccicarono a terra ai miei piedi.
S. Plath, La campana di vetro (Mondadori, 1968 [2013])
Piangere fa bene. Attraverso la lente delle lacrime
la miopia della quotidianita' mette meglio a fuoco le emozioni più distratte.
E tutto si schiarisce.
E. Augusti [sel. G. Liberti]
[E. Augusti] 10 novembre, domenica mattina, Aperitivo in concerto. La rassegna milanese del Teatro Manzoni ospita l’Aaron Parks Trio. Unica data italiana per la formazione che si completa con Thomas Morgan al contrabbasso e RJ Miller alla batteria. Un concerto ristoratore e l’occasione per presentare al pubblico una session che concilia il protagonismo di Aaron Parks (appena uscito per la ECM il suo solo, Arborescence) con la diligenza minimalista di Morgan e Miller.
Parks è lì, a sbriciolare frasi su un tappeto di armonie quasi immobili, e a spingerle in avanti con un soffio di voce. Quell’accenno, che accompagna ogni tema, è una ruga che segue graffiante l’espressione di un volto composto e sereno. È una crescendo di suggestioni. Resta il passo della batteria, ora felpato e sordo, ora strisciato. Il contrabbasso è in continua ricerca, segue la scia, ricalca le orme, ripercorre in un’eco disciplinata e composta ogni tema. Intro, e si distende un tune leggibilissimo, seguito pedissequamente dal contrappunto di Morgan. Avvita swingante un nuovo tema. Morgan ci infila un assolo labirintico e spigoloso. La batteria riconquista spazio, misurata e ironica, delicata anche negli accenni che picchettano un po' marchin’. Opaco e quasi svogliato negli assoli, Miller controlla i tempi e recupera carattere nell’interplay. Si cambia registro, di nuovo calato in atmosfere dense e ovattate che trasbordano gli inquadramenti rigidi del tempo. Parks si inchioda all’ostinato del basso, e ci fissa tutto un ambiente armonico. È una passionalità rassicurante quella che si riconosce già dai primi accenni di “Everything I love”, «Because I love everything», aggiunge Parks, didascalico. Uno swing pacato, che si insinua sottopelle, conciliante. Un binario che dondola, fino a ingranare un nuovo tema, segmentato, intercettato subito dal walking stretto del contrabbasso. Chiude cadenzato, rigoroso, disciplinatissimo, senza però cedere alla tentazione dell’ultimo colpo di basso. L’enciclopedia di Parks testa il ternario, ricco di lirismo, composto e personale. Basa un nuovo binario, ed è una formula caratterizzante, di un white jazz a modo, che si ritrova in ogni frammento. «I played a solo piano, but I don’t remember what it was», confessa giocando col pubblico. “Cartoon Element” chiude, e si corre verso il finale. Disgrega e frammenta, per poi trovare stabilità in accordi a piombo superpedalizzati. C’è un formalismo di impostazione al quale Parks torna sempre, riconoscibilissimo, uno spirito classico che disciplina ogni suo istinto deformante. E il gioco a tre funziona con una naturalezza devastante, liscio, imperturbabile, disinvolto. Molto più che democratico.