27 aprile, h. 11.34 - [E. Augusti] Il giorno dopo. Torino si sveglia con un timido sole. L'appuntamento è al Circolo dei lettori con la prosa spontanea di un accattivante e intenso Mexico City Blues. I testi del padre del movimento beat incontrano la musica in un pas à deux sofisticato, per voce recitante/canto e pianoforte. Giuppy Paone e Umberto Petrin raccontano un altro Kerouac, fortemente ispirato e letto in chiave jazz. Improvvisazione e composizione trovano il giusto equilibrio, in un remembering che ripercorre giochi d'infanzia con parole d'adulto, che poi, anche se non sono quelle giuste cosa importa. Un reading che coinvolge e tiene il pubblico dentro la narrazione. E in quel cinema della nostalgia s'intravedono anche Parker e Young, e una poesia senza tempo. «Romance never came back | Crashing interruptions | So I'm with you | happy once again and singing all my blues | in tue with you | with you».
27 aprile, h. 12.40 - Arriva l'appetito. Quale occasione migliore per gustare un jazz brunch? Il TJF ha pensato anche a questo. Sa bene come coccolare i suoi. Pochi minuti e siamo in Piazzale Valdo Fusi, Jazz Club Torino. L'atmosfera è quella giusta. Armstrong ed Ellington prestano il loro nome a due menu, mentre i ragazzi della masterclass della Juilliard School of Music raccontano il loro jazz sotto lo sguardo imperturbabile di un gigante Monk.
27 aprile, h. 16.00 - La pioggia battente (che distrugge gli ombrelli!) non ci ferma. Ritorniamo al Circolo dei Lettori. Diego Borotti dedica un tempo del jazz ai bimbi. Spazio ai bambini è il laboratorio che il TJF ha realizzato per i bimbi dai cinque agli undici anni. Sax, pianoforte e una loop machine per avvicinare i piccoli al jazz mood. Tum Cià Tum Cià. Si va di piedi e mani, e il jazz diventa un gioco per tutti (anche per mamme e papà!). Pochi metri più in là, Stefano Zenni presenta per la sezione Book Geoff Dyer e Luca Ragagnin, conversazione su Natura morta con custodia di sax. Era il 1993 quando proprio da Torino, partiva il successo mondiale di uno dei lavori di letteratura jazz tra i più apprezzati e riconosciuti. Oggi, a vent'anni di distanza, è ancora una volta Torino a raccogliere e accogliere – grazie a Einaudi – la sfida di una ristampa, impreziosita da un irrinunciabile aggiornamento biblio-discografico. Il racconto di un jazz diverso, dove intimità e celebrità, mito e quotidianità si fondono in un tempo-non tempo, che è «tradizione del futuro» (Ragagnin).
27 aprile, h. 20.10 - Cambiamo location. Café Des Arts, Via Principe Amedeo. L'ambiente è angusto, ma familiare. Si sta vicini, e la musica arriva a breve raggio, e se ne sente il calore. Sul palchetto, Diego Borotti (sax tenore), Alberto Marsico (organo) e Gio Rossi (batteria). Rossi gira a turbina, mentre l'hammond di Marsico lacera e strappa. Si cambia registro quando si fa strada Monica Fabbrini. L'impasto timbrico della sua voce, magmatico e sensuale, si lascia plasmare dall'Aqua Sapiens di Borotti. Ci spostiamo di un isolato, e siamo al Blah Blah di via Po. Giovanna Gardelli, in arte Marianne Mirage, e il suo cappello nero ci accolgono. Morbida e sinuosa, la sua voce scivola tra i bassi di Niccolò Bonavita, mentre Stefano Pennini al piano e Matteo Frigerio alla batteria ne accolgono le forme. L'aria è leggera. Non piove più. Ne approfittiamo per una passeggiata fino a Piazza Castello, aspettando la "vocal night" tutta al femminile.
27 aprile, h. 21.05 - Arrivano prima i musicisti della Radar Band. Cristiano Arcelli (sax alto), Fulvio Sigurtà (tromba), Massimo Morganti (trombone), Michele Francesconi (pianoforte), Giacomo Riggi (vibrafono), Daniele Mencarelli (basso elettrico), Alessandro Paternesi (batteria) e Enrico Pulcinelli (percussioni). Il tempo di raccogliere il mood latino e Cristina Zavalloni entra in scena. Escursioni isteriche di una fluidità magnetica. Spirali, labirinti vocali a perdifiato. Architetture sofisticate che attingono dal classico, con grande naturalezza. Un virtuosismo frammentato il suo, che si ricompone in lunghi e densissimi fraseggi. Una tecnica stupefacente, cervellotica, dove le articolazioni per gradini dinamici costruiscono altezze da capogiro. Forte, fortissima la coerenza timbrica delle voci della Radar Band, in un rincorrersi d'innesti perfetti. Cambio palco, ed è ancora il sud del mondo a farla da padrone. Esplode la festa quando arriva il Tania Maria Quartet. Accanto a Tania Maria, Marc Bertaux al basso, Edmundo Carneiro alle percussioni e Hubert Colau alla batteria. Si va di bossa, samba e il jazz non ci pensa un attimo a entrare nel vivo del gioco. Energica ed elegante, affascina e coinvolge. Impossibile restare fermi! Si baila!
[ph. E. Augusti/M. Capozzi]
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26 aprile, h. 18.20 - [E. Augusti] Calvino diceva che la fantasia è un posto dove ci piove dentro. Qui a Torino la fantasia sembra essere ovunque e la pioggia, per fortuna, non vuole farle compagnia. Pronti per l'edizione 2013 del Torino Jazz Festival firmato Stefano Zenni. Nonostante il cielo grigio, l'aria è mite, e la Mole svetta. Se «la musica è l'inizio di qualcosa», quello che sta per cominciare qui è una festa. Te lo suggeriscono i temi jazz che ti piombano in testa mentre passeggi sotto i portici di Via Garibaldi. Te lo raccontano le atmosfere blue di una tromba che al tramonto scivola lenta tra i passanti e ti guida verso il posto giusto. Te lo urlano i passi cadenzati di una marching band che prova in un angolo di Piazza Vittorio e che ti viene a trovare mentre guardi, sorpreso da un insolito contrabbasso, le vetrine di una pasticceria. Sono da poco passate le 18.00, e mentre l'Urban Center di via Milano si popola di figure più o meno sconosciute di chi il jazz prova a raccontarlo, da piazzale Valdo Fusi arriva il jazz che si fa, ricordando Gillespie e Mingus. Let's go!
26 aprile, h. 20.21 - Ci spostiamo al Blah Blah di via Po. «Ora hai capito da dove viene il suono?», chiede lui spavaldo alla ragazza che le sta a fianco. Lo spazio ibrido è un'esplosione di gente. Il buio sfuma i profili, e le voci di Boltro, Di Castri e Roche ti arrivano dritte in faccia dalle proiezioni che si stagliano sul fondo del locale. Zero contatto visivo (che peccato!) La robustezza percussiva di Roche sostiene con vigore l'interplay, per poi sfilacciarlo sul ride. Di Castri lo segue ragionando di armonici, e porta Boltro a distendere. Il contrabbasso si fa elettrico, pedalizzando nuove linee di una sinuosità plastica. L'interplay monta, fittissimo. Roche e Di Castri si marcano a uomo, mentre Boltro si svincola in un virtuosismo leggero, che trova quiete in innocue cadenze tonali. Ritorna il delirio percussivo. Un punto d'appoggio è irresistibile ma improbabile da trovare. Roche ha una voglia brutale di raccontare. Si rintana nell'onomatopea, e da lì suggerisce giochi che sanno divertire. E' una macchina da scrivere. Straordinaria l'intesa con De Castri. Boltro fa da diaframma, ed è un'enciclopedia di stile. Uno spettacolo unico per una semplice «rimpatriata» tra amici: «saliamo sul palco e suoniamo», come non accadeva da più di vent'anni.
26 aprile, h. 21.05 - Di corsa verso Piazza Castello. Enrico Rava Quintet & Orchestra del Teatro Regio di Torino. Accanto a Rava, Roberto Cecchetto (chitarra), Giovanni Guidi (pianoforte), Stefano Senni (contrabbasso) e Zeno De Rossi (batteria). A dirigere il Rava On The Road c'è Paolo Silvestri. Ecco come la musica classica incontra il jazz. Il compromesso non costa neanche poi tanto. Si disciplina il jazz? Si corrompe la forma? Al di là della solita retorica, dei misticismi e delle note a margine, il Rava On The Road funziona, e funziona da sé. Perché Rava, perché le musiche di Rava, perché gli arrangiamenti di Silvestri, perché il profilo del Quintetto, perché l'Orchestra del Regio. E potrebbe bastare così. E' un mélange d'eleganza ordinante e spinta improvvisativa che si lascia cogliere già dal Preludio. I violini imbastiscono degli ostinati irregolari che ossessionano e caricano nel moto ondoso degli accenti, portandosi dietro gli ottoni, le percussioni, fino alla chitarra "classicamente acida" di Cecchetto. E' l'acme, prima delle linee sensuali e morbide del tempo secondo. E' una combinazione di universi espressivi che convince. Anche la pioggia.
[ph. E. Augusti/M. Capozzi]
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Il pensiero è come il coltello: ti ci puoi imburrare il pane oppure tagliartici la gola
Giulio Cesare Giacobbe, Come smettere di farsi le seghe mentali e godersi la vita, 2003
[sel. E. Augusti]
Due compiti per iniziare la vita: restringere il tuo cerchio sempre più e controllare continuamente se tu stesso non ti trovi nascosto da qualche parte al di fuori del tuo cerchio
F. Kafka, Aforismi di Zürau, (94, Adelphi 2004)
[sel. E. Augusti]
[E. Augusti] Lecce, 5 aprile 2013, e il Teatro Politeama Greco sposa l’incontro con la tradizione partenopea. Renzo Arbore e L’Orchestra Italiana regalano una serata spumeggiante. Grande l’entusiasmo e la partecipazione. Arbore accoglie le nostalgie del pubblico leccese e regala la magia della dolce Napoli. Non c'è mielosità stucchevole, ma l’esperienza del maestro che sa cosa valorizzare del suo racconto. Imprevedibile e goliardico, cattura tutti con la sua genuina ironia. È una teatralità coinvolgente che non risparmia nessuno, men che meno i suoi fidati compagni di viaggio. L’età non è un mistero, ma non si sente. E se si sente, ci giochiamo su. Arbore è un maestro nei panni del garzoncello swingante. Gli stanno a pennello. Neanche una grinza in quell’entusiasmo da giovinetto senza età. «Poche note, ma quelle giuste». Ed è al pianoforte che regala, in quella pioggia leggera dedicata a Modugno, il blues più intimo. Scorre alle spalle dell'Orchestra un cinema di ricordi. È uno show nel senso più nobile. Un attimo, e la dolce Napoli si fa verace. Murolo e Carosone la fanno da padrone. I musicisti dell’Orchestra sono tutti lì, protagonisti accanto ad Arbore che non perde anzi occasione per tirarli dentro al gioco e spingerli oltre la linea. La musica asseconda i caratteri di ciascuno. È cucita addosso alle loro personalissime suggestioni. E l’improvvisazione ci va a nozze, in uno scambio osmotico che fa spettacolo, a tutto tondo. Gustose le declinazioni fuori stile, dal reggae alle contaminazioni afro, senza risparmiare il parodico. È un girotondo, è un gioco di bimbi senza età. Mascheramenti, colpi di scena e il «coro di Lecce», un po’ timido in prima battuta, ingessato dal velluto delle poltrone in seconda, esce finalmente allo scoperto, totalmente dentro la scena a celebrare una "Luna rossa" che non tramonta. W l’Orchestra Italiana! W Arbore!