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Ascoltarla dal vivo è sempre una piacevolissima sorpresa. Carolina Bubbico presenta a Roma, al Teatro Studio Borgna (Auditorium Parco della Musica), il suo secondo lavoro. Una donna (Workin' Label 2015) è un album denso, pieno di colore e fantasia, e le somiglia intimamente. Non è solo la bravura della cantautrice e il portento di Alemanno e Congedo, rispettivamente basso e batteria, a colpire, ma la cura dell'estemporaneità, la straordinaria capacità di creare con naturalezza invidiabile stabili e brillanti architetture armonico-ritmiche, la cura del microscopico, le dinamiche, gli stop, la bellezza delle voci declinate nei cori dei loop, il calore delle ambientazioni sonore, il virtuosismo creativo misto alle sospensioni dell'elettronica e alle voci personaliissime della sezione acustica. Con Carolina, Luca Alemanno al basso, Dario Congedo alla batteria, Filippo Bubbico alla chitarra acustica e all'elettronica e, stasera, la partecipazione straordinaria della tromba di Fabrizio Bosso, si respira un po' di tutto, dal pop al jazz, al funk al blues. O semplicemente ottima musica. In linea col carattere dell'album anche le rivisitazioni di Superstition di Stevie Wonder e di Prendila così di Lucio Battisti. Coinvolgenti, dinamiche, appassionanti. Al link, il videoclip del singolo Cos'è che c'è

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MAX IONATA QUARTETTO Dieci

Lunedì, 24 Settembre 2012 12:26

 

[E. Augusti] Matteo Pagano e Via Veneto Jazz (2011) presentano Max Ionata Quartetto. Max Ionata (sax tenore), Luca Mannutza (piano), Nicola Muresu (contrabbasso) e Nicola Angelucci (batteria) per questa produzione di rara bellezza, un “complealbum” per e da festeggiare. Dieci è stroardinariamente jazz. Un jazz autentico che riconosce e si riconosce. Sin da "Astobard" (Muresu). L’ingresso è trionfale e rivela subito il featuring. La tromba di Fabrizio Bosso svetta. Il dialogo col sax di Ionata si fa d’intesa. Ionata e Bosso direzionano, puntano e conquistano. Angelucci macina uno swing spassoso che viaggia come un treno. Il pianismo di Mannutza è discreto, morbido, un velluto. Gioca di stop. E ogni fermata riparte con uno slancio che appassiona. Ionata, funambolico e disinvolto, crea edifici melodico-armonici di un fascino raro. Entrano subito in testa. L’attenzione per la linea e la discorsività dei fraseggi spingono l’interplay in uno spazio empatico totale e totalizzante, dove tutto è univocamente percepibile. Perfetto il timing. Un dialogo a tre, fatto di entusiasmati personali e ben sostenute confidenze sax-tromba. La traccia 2 è un omaggio a due grandi del jazz. "Coltrane meets Evans" (Mannutza) è un incontro per incontrare. Scorre, vivo. Bosso lancia note a cascata. Mannutza incasella, parsimonioso. È un singhiozzo che arresta e spinge. "La talpa" (Ionata) inverte la marcia. È un cambio di rotta. Scanzonato e disinvolto. Mannutza conquista un assolo ricco ed estremamente vario, sostenuto da un walking bass sempre presente, discreto, stabile. Pochi secondi e si riconquista il tempo. Ionata detta il riff. Mannutza segue, a mani slegate. Il basso provoca. Il fraseggio della destra è fitto e ricco, un ricamo. "Turn around" (Mannutza) sollecita un’atmosfera da promenade. Gira intorno. Uno standard dedicato, "Who can I turn to" (Bricusse-Newley), ripensato in tempo medio, raccoglie e a metà strada prepara il giro di boa. Finalmente emerge, timido, Muresu. Lode 4 Joe (Ionata) è la ballata che resta, di un lirismo che consola. Carezzevole e intimo. Con "Altalena" (Mannutza) ritornano i giochi a due. Il contrappunto è intrigante e sintonico. La voce di Ionata incontra quella di Bosso, in uno scambio amabile d’eleganza e raffinatezze. È un fluire di suggestioni. Chiude l’album "Attila" (Lease) (Muresu), dai contenuti che non t’aspetti, a confidare nel titolo, ma che comprendi con l’ascolto. Un abbraccio da congedo, che lascia nelle orecchie, mistico e dolce, il desiderio del re-start. Evapora, fino a scomparire in uno spazio immobile, quello, stanco, che ha visto il passaggio e ha vissuto le turbolenze di un’emozione che non torna. Ionata distende il pensiero, mentre Mannutza, sullo sfondo, ne conserva, vivo e in moto perpetuo, il ricordo. Tace.
 
Max Ionata – sax tenore
Luca Mannutza – piano
Nicola Muresu – contrabbasso
Nicola Angelucci – batteria
Special guest Fabrizio Bosso – tromba e flicorno
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[E. Augusti] «E stasera la musica di Nino Rota diventa uno standard», recitano le note d’apertura. A dire il vero il mondo del jazz di omaggi al maestro Rota ne ha già dedicati, e non pochi. Nessuna prima volta, dunque. Il merito di Enchantement, il progetto di Stefano Fonzi e Fabrizio Bosso, in prima (questo sì) lo scorso lunedì sera al Teatro Orfeo di Taranto, è stato piuttosto quello di presentare un connubio pregiato ed elegante tra due mondi solo apparentemente lontani, quello della musica cosiddetta colta e quello del jazz. Una scrittura equilibrata da un’improvvisazione mai invadente che consegna, nell’intenzione della suite, un omaggio sensibile e affezionato al ricordo del maestro.

Qualcuno parlerebbe di jazz sinfonico. Sullo stesso palco, l’Orchestra della Magna Grecia e un combo d’eccezione, con Lorenzo Tucci alla batteria, Rosario Bonaccorso al contrabbasso, Claudio Filippini al pianoforte e Fabrizio Bosso alla tromba e al flicorno. Enchantement, sottotitolo “L’incantesimo di Nino Rota”, è l’ultima produzione della Schema Records per celebrare il centenario dalla nascita del maestro. Ispirata e lucida negli arrangiamenti, è una collezione che percorre, ripensa e trasfigura alcune delle pagine più intense dell’opera da film di Rota.  Da “Otto e mezzo”, introdotto suggestivo dalle parti di xilofono e fraseggiato da Bosso per frammenti, a “Romeo e Giulietta”, dove l’eco dell’oboe riscopre una romantica ballad, cadenzata dai respiri soffici di Bosso e dalle arcate languide della prima fila.

 

Letto di luci blu. Quando arriva “Amarcord”, la tromba strilla rauca e audace, sempre dannatamente intonata, da strappare i capelli. Tante le suggestioni e le allusioni che rivitalizzano il rapporto con quel cinema che non c’è, e che comunque si sente, e si vede. Bonaccorso imbastisce caldo il tema. L’intermezzo è a firma Fonzi. “Enchantement” arriva all’anima, raccontato pianissimo dal violoncello. Dall’altra parte della mezzaluna, Tucci c’innesta un piatto muto e risponde con un assolo afono che gonfia, strutturato, definito. Un dialogo a distanza il loro, i due estremi del gran combo. Impressionista. La linearità del pensiero di Bosso resta, sempre cantabile e limpida. Tempo di valzer e Filippini, espressivo e devoto a un pianismo lirico, purtroppo opacizzato dal timbro costipato dello strumento, allude al “Gattopardo”. L’assolo vivo di Bosso, il dialogo amoroso con la prima viola, e l’orchestra prende “La Strada”. Una bolla, sospesa. Fende appena la luce del primo violino, quello del “matto”. Intenso l’assolo di Filippini che anticipa “Il padrino”, poi dichiarato da Bosso. Esplode e si riappropria di quello spazio drammatico l’orchestra. Caricano i timpani. È una migrazione ritmica che allude all’America e precipita swingante nella sezione ritmica. Miscela perfetta. Noises e dramma nei colori di Bosso, spinti da un ritmo convulso nei suoi repentini cambi di marcia. Funerei i colori de “Il ragazzo di borgata”, saggio misurato di echi della tradizione popolare, e un fischio arriva d’improvviso a spezzare il tempo narrativo. Sincopa “La dolce vita” e avvia un eccentrico samba. Scanzonato e leggero, è una festa. Un attimo, e quell’ingessatura di reverenzialità si scioglie. L’orchestra diventa protagonista, buca il velo di timido contenimento, e quel piacere incubato per cinquanta minuti finalmente viene fuori e inonda. «Ci siamo lasciati ispirare», confida Bosso. E quell’ispirazione ha fatto centro.

 

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