Questa recensione, che non è una recensione, comincia con un’ammissione di colpevolezza. La mia. Sono in debito con Fabrizio Savino. Sono in debito perché più volte ho sentito di voler scrivere non su uno, ma su due dei suoi lavori, e tutte e due le volte in cui ho cominciato a scrivere, per varie ragioni ho dovuto interrompermi. Ora, non è che Fabrizio Savino abbia bisogno della mia recensione, che non è neanche una recensione e che forse neanche mai la leggerà; sicuramente, poi, una recensione in più o in meno non scalfirà neanche minimamente la bellezza di quello che è riuscito a creare. Perché di bellezza si tratta. Se può essere un’esimente, posso dire che una delle ragioni per cui mi sono interrotta nella scrittura è stata nel fatto di non avvertire l’ansia impellente di doverlo fare, di dover scrivere per liberare il lettore. Aram (Alfa Music, 2012) e Gemini (A.MA Records, 2016) sono stati e sono due album che mi hanno fatto e mi fanno quotidianamente compagnia. Sarà per l’onestà del pensiero musicale, per la limpidezza dell’idea, per l’assenza di qualsiasi forma di artificio e orpello, per l’omogeneità dei brani pur nell’originalità di ciascuno, per la tenuta dei gruppi scelti, per l’alchimia delle personalità che compaiono accanto a Savino, per la coerenza dei loro discorsi, per l’equilibrio di ogni ascolto, per le dinamiche bilanciatissime, per la pulizia del suono, per la morbidezza dei fraseggi, per le dissolvenze e le atmosfere total white, per la cura del dettaglio. Per tutto questo, e per altro ancora, Fabrizio Savino, Enrico Zanisi, Luca Alemanno, Dario Congedo e Gianlivio Liberti sono ruote perfette, elementi unici di un ingranaggio che viaggia senza esitazioni verso la bellezza, di un ingranaggio che è già esso stesso bellezza. Un jazz poetico, intimamente connesso all’anima. Da vivere in pieno.