Questa recensione, che non è una recensione, comincia con un’ammissione di colpevolezza. La mia. Sono in debito con Fabrizio Savino. Sono in debito perché più volte ho sentito di voler scrivere non su uno, ma su due dei suoi lavori, e tutte e due le volte in cui ho cominciato a scrivere, per varie ragioni ho dovuto interrompermi. Ora, non è che Fabrizio Savino abbia bisogno della mia recensione, che non è neanche una recensione e che forse neanche mai la leggerà; sicuramente, poi, una recensione in più o in meno non scalfirà neanche minimamente la bellezza di quello che è riuscito a creare. Perché di bellezza si tratta. Se può essere un’esimente, posso dire che una delle ragioni per cui mi sono interrotta nella scrittura è stata nel fatto di non avvertire l’ansia impellente di doverlo fare, di dover scrivere per liberare il lettore. Aram (Alfa Music, 2012) e Gemini (A.MA Records, 2016) sono stati e sono due album che mi hanno fatto e mi fanno quotidianamente compagnia. Sarà per l’onestà del pensiero musicale, per la limpidezza dell’idea, per l’assenza di qualsiasi forma di artificio e orpello, per l’omogeneità dei brani pur nell’originalità di ciascuno, per la tenuta dei gruppi scelti, per l’alchimia delle personalità che compaiono accanto a Savino, per la coerenza dei loro discorsi, per l’equilibrio di ogni ascolto, per le dinamiche bilanciatissime, per la pulizia del suono, per la morbidezza dei fraseggi, per le dissolvenze e le atmosfere total white, per la cura del dettaglio. Per tutto questo, e per altro ancora, Fabrizio Savino, Enrico Zanisi, Luca Alemanno, Dario Congedo e Gianlivio Liberti sono ruote perfette, elementi unici di un ingranaggio che viaggia senza esitazioni verso la bellezza, di un ingranaggio che è già esso stesso bellezza. Un jazz poetico, intimamente connesso all’anima. Da vivere in pieno.
26 aprile, h. 11.00 – Una giornata splendida. Il secondo giorno del TJF è baciato dal sole. Le strade esplodono, ed è una città intera a partecipare della festa del jazz. Ci spostiamo al Teatro Carignano. Ad aspettarci c'è un duo d'eccezione: Gianluigi Trovesi e Gianni Coscia accolgono l'invito del direttore Zenni per raccontarsi e raccontare, in musica e parole, la storia di due uomini, di un incontro tra formazioni ed esperienze di vita diverse, di un'amicizia, di un'intesa. Si gioca, ed il piglio è quello giusto. Coinvolgente. Il pubblico partecipa, è dentro la scena. Non c'è distanza. Quello di Trovesi e Coscia è un jazz "di cortile", un jazz che raccoglie tutti i colori e i sapori di un tempo perso e ritrovato. C'è tutto un Mediterraneo, nella loro musica, c'è la danza, la condivisione del borgo, le note della banda del giorno di festa. "C'è una strega, c'è una fata". C'è, non c'era. C'è la magia di un unico tempo, quello di un duo complice, dove si procede allo stesso passo, nella stessa direzione, con lo stesso respiro, come nella più bella delle storie d'amore. L'eleganza dei temi, classici e originali, delle riproposizioni "migliorate", della tensione ad un modello di perfezione, che è raffinatezza di gusto. Armonicamente disarmonica negli urti, quella di Trovesi e Coscia è, sopratutto, una storia senza filtri. “Non ho voluto registri - dice Coscia - mi piace il passaggio diretto, senza filtri, dal mantice al suono”. E' vero, si sente, e piace anche a noi.
h. 16.00 – Il tempo di fare due chiacchiere al sole e si riparte, alla volta del Circolo dei Lettori. Luca Bragalini presenta Storie poco standard. Le avventure di 12 grandi canzoni tra Broadway e il jazz (EDT, 2013). Un microfono, uno schermo e un pianoforte per svelare, riscoprire e raccontare, con la cura ricostruttiva dello storico, l'analisi attenta del musicologo e la capacità comunicativa del grande divulgatore, profili e segreti di un mondo in bianco e nero, “over the rainbow”. Da Harold Arlen ad Art Pepper, per poi esplorare il contemporaneo con un sorprendente Israel Kamakawiwo’ole. Premiata sezione book del TJF, con pioggia d’applausi e tanto di coda per l’autografo. Ringraziamo Luca e corriamo verso l’Auditorium Rai. Qualche minuto di pausa. È tutto pronto per il main: Uri Caine e Dave Douglas.
h. 18.00 – Un Auditorium intero in fermento. Primi istanti d’apprensione per un vero e proprio assalto al miglior scatto. Dave Douglas e Uri Cane sfilano sul palco, in perfetto stile newyorkese. Ingresso divaricato, contrasti aspri e intervalli ubriachi. Si sigla il compromesso, e in un clima più disteso e accogliente si sperimenta. Proposte originali e alcune interessanti rielaborazioni di temi della tradizione “degli States prima degli States”. Si torna indietro di quasi tre secoli. Linee aperte, fraseggi morbidi e armonie composte. Stacca il piano di Caine e distende, elegante, la tromba di Douglas. Due anime profondamente diverse: gli occhi aperti di Caine vigilano sulle inquietudini ad occhi chiusi di Douglas, in uno scambio sincero e misurato che restituisce il senso più autentico del duo. Ogni divagazione della tromba è ripresa dall'ostinato intransigente del piano. Si frantuma poi all'improvviso, per affondare in una coltre di suono, filtrata appena dal sibilo raggelante del soffio della tromba. Caine predilige il registro medio, svuota i bassi e resiste in un accompagnamento impertinente che sostiene Douglas e accompagna la chiusura. Esplode l'applauso e si chiama il bis.
h. 20.00 - E' ora di cena, ci coccoliamo un po' all'Esperia. E se ci fosse un trio d'eccezione come quello newyorkese di Emanuele Cisi, Joseph Lepore e Luca Santaniello a farci compagnia? Non potremmo chiedere di meglio. E infatti, quando il sax di Cisi rompe il silenzio e intona l'"Aknowledgment" della suite di Coltrane abbiamo la conferma che la serata non potrebbe essere più piacevole di così. Ci abbandoniamo a quella fortissima ispirazione, mentre a poco più di un chilometro da noi una straordinaria Diane Schuur incanta Piazza Castello.
h. 23.00 - Inizia la notte del Fringe. Piove e l'aria si fa pungente. L'attesa monta. Di qua e di là dal fiume si staglia il popolo del Music on the River, l'appuntamento del "solo" dedicato. Una zattera sull'acqua appena increspata, appesa nel buio, un occhio di bue a ferirla nel centro, una canoa a motore per raggiungerla. A bordo, all'ombra di un ombrello chiaro, c'è Javier Girotto. La voce del suo sax fende il silenzio, rimbalza da una riva all'altra del Po, e regala a tutti la più dolce e magica delle buone notti. A domani.
[E. Augusti]
[E. Augusti] Torino, 25 aprile, h. 15.30 – Primo pomeriggio di un giorno di festa. È il 25 aprile, ed è festa nazionale. Si celebra la liberazione, e il Torino Jazz Festival edizione 2014 non può che partire da qui, dal porticato del Museo Diffuso della Resistenza, per raccontare, a tempo di swing, la storia di una rinascita, di un riscatto, di una “rivoluzione culturale” (G. Agosti). Suona la Big Band Theory diretta da Luca Begonia, solista Claudio Capurro, per ripercorrere sulle note di Glenn Miller gli anni della “riconciliazione musicale” con l’America, anni in cui nomi come quello di Luigi Braccioforte (Louis Armstrong) e Beniamino Buonomo (Benny Goodman), testimonianza dell'obbedienza coatta alle circolari del Partito Nazionale Fascista di quasi un quindicennio prima, restituivano ora i profili e abilitavano all’ascolto di una tradizione autentica che veniva da lontano, tutta da scoprire.
h. 18.00 – Ci spostiamo in Piazza Castello per un’altra celebrazione, quella del settantesimo compleanno di Gianluigi Trovesi. Con lui, sul main stage del TJF, ci sono la Filarmonica Mousiké diretta da Savino Acquaviva, il percussionista Stefano Bertoli e Marco Remondini al violoncello. Le quadrature dei primi tempi lasciano presagire qualcosa che con quelli swinganti che ci siamo appena lasciati alle spalle hanno poco o nulla a che fare. E invece la sorpresa arriva, nel dialogo imprevedibile tra generi, stili e colpi di scena sui finali, quasi tutti sospesi. L’estro del violoncello distorto di Remondini rompe gli schemi, anestetizza le forme regolari delle citazioni della grande tradizione operistica italiana e ricompone l’irriverenza dei giocattoli sonori di Bertoli in un gioco semiserio delle parti dove tutto torna. Divertente e travolgente, la formula restituisce alla piazza di una capitale l’orgoglio bandistico di una valle. Non poteva starci meglio.
h. 20.00 – ...e se andassimo a mangiare qualcosa?
h. 21.00 - Cambio d’abito per Piazza Castello. Il viaggio ci riporta a Sud. Sul palco Daniele Sepe, con Floriana Cangiano (voce), Franco Giacoia (chitarra), Tommy De Paola (tastiere), Davide Costagliola (basso) e Paolo Fortini (batteria). Esplode l’arena. C’è spazio per tutto, dal rock al cantautorato italiano, dai canti della tradizione popolare al reggae, fino alla classica, alla fusion, al jazz. Si rinnova l’omaggio a Zappa, Mingus, Jara e s’accenna una “Freedom Jazz Dance”. Sepe raccoglie la protesta, spunta qualche striscione “no tav” e si fissa un pensiero, coerente con la giornata, attento al sociale. È tutto spinto, c’è aria di festa. Faremo tardi, stasera.
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[E. Augusti] Se dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna (!), dietro un bel festival non possono che esserci tre grandi virtù, femminili pure loro: la determinazione, la cura, la passione. Ecco come si può arrivare a ripetere un piccolo grande successo, per la trentaquattresima volta nella sua storia. Qualche settimana fa eravamo a Ivrea, a celebrare l’Open Jazz Festival edizione 2014. Un festival dedicato ad Amiri Baraka, alla profondità del suo pensiero e all’onestà della sua esperienza di vita. Un festival che ha riconquistato il suo meritato spazio grazie allo spirito di abnegazione di Massimo Barbiero, della crew del Music Studio – Ivrea Jazz Club e all’attenzione degli sponsor ai quali più volte, e a buona ragione, è andata la gratitudine dell’organizzazione e del pubblico.
Ivrea è silenziosa, d’un silenzio che sa d’attesa e anticipa il rumore. E se quello della battaglia delle arance si è riassopito da poco, un altro rumore, comunque di tradizione, si è appena risvegliato. È quello del jazz, che in una quattro giorni di fine marzo e di timidissima primavera ha raccolto le voci dei protagonisti, chiamati a raccontarsi in musica tra Ivrea, Banchette e Bollengo. Enten Eller, Javier Girotto, Paolo Fresu, Daniele Di Bonaventura. Quando arriviamo finalmente anche noi de La Orilla ad aspettarci ci sono Marta Raviglia e Massimo Barbiero. Teatro Giacosa di Ivrea. A introdurre è Claudio Morandini, che ci spiega la storia e la ragione di quei testi, messi in musica e interpretati al piano e all’elettronica dalla voce plastica della Raviglia. Su un tappeto di drums, gongs, tabla e marimba, sapientemente intrecciati a misura dal gusto di Massimo Barbiero, si svolge un altro racconto, quello dei corpi delle danzatrici Francesca Cola e Giulia Ceolin. Tensioni, distensioni, e una “Filomena…da gli amorosi lacci uscita”. Si parla, si canta, si suona, si danza la “Gabbia”. Interessanti suggestioni quelle della Raviglia, magnetica la costruzione delle sue architetture vocali, verticalizzate vertiginosamente nei loop.
Quando salgono sul palco Hamid Drake e Antonello Salis, il tempo si contrae. Strabordante, incontenibile percussività, forse eccessiva. Non ci sono distensioni, non c'è accenno di respiro. Salis al pianoforte è esplosivo. Travolge, magmatico, i drums di Drake che determinati e lucidi si infiltrano, si insinuano, alla ricerca continua di una camera d’aria che lasci spazio al tempo. C'è scambio, e grande tensione. E' il suono a diventare materia plastica, questa volta, materia da modellare e corrodere. Salis agguanta e strozza ogni forma, per poi allungarsi in uno spasmo alla fisarmonica. Quando si smorzano le asprezze, Drake regala un quadro personalissimo, che compensa e riporta ad un intimismo pulsante.
Lisa Gino e le sue selezioni di Amiri Baraka funzionano a interruttore. Si gioca di rimbalzo col presentatore, Daniele Lucca, ma le suggestioni blues sono forti, preludio ideale per le atmosfere anni Settanta degli Oregon. Splendide diapositive, grande rispetto ed eleganza di suono, fraseggi morbidi e un distillato di armonici. Ralph Towner riabilita la piacevolezza dell’ascolto, e tra i suoi temi più raffinati e il gusto eccentrico dei noise regala un sigillo dorato al festival.
Il nostro grazie speciale va all'ospitalità di Massimo Barbiero e alla disponibilità dei volontari, e di Michele Bena in particolare. Al prossimo anno!
Ero solita pensare di essere la persona più strana del mondo,
poi ho pensato:
ci sono così tante persone al mondo che ci dev'essere qualcuna proprio come me,
che si sente bizzarra e difettosa,
nello stesso modo in cui mi sento io.
Frida Kahlo
[sel. G. Liberti]
Scritto sulla sabbia
Che il bello e l'incantevole
Siano solo un soffio e un brivido,
che il magnifico entusiasmante amabile non duri:
nube, fiore, bolla di sapone,
fuoco d'artificio e riso di bambino,
sguardo di donna nel vetro di uno specchio,
e tante altre fantastiche cose,
che esse appena scoperte svaniscano,
solo il tempo di un momento
solo un aroma, un respiro di vento,
ahimè lo sappiamo con tristezza.
E ciò che dura e resta fisso
non ci è così intimamente caro:
pietra preziosa con gelido fuoco,
barra d'oro di pesante splendore;
le stelle stesse, innumerabili,
se ne stanno lontane e straniere,
non somigliano a noi, effimeri,
non raggiungono il fondo dell'anima.
No,
il bello più profondo e degno dell'amore
pare incline a corrompersi,
è sempre vicino a morire,
e la cosa più bella, le note musicali,
che nel nascere già fuggono e trascorrono,
sono solo soffi, correnti, fughe
circondate d'aliti sommessi di tristezza
perché nemmeno quanto dura un battito del cuore
si lasciano costringere,
tenere;
nota dopo nota, appena battuta
già svanisce e se ne va.
Così il nostro cuore è consacrato
con fraterna fedeltà a tutto ciò che fugge e scorre,
alla vita,
non a ciò che è saldo e capace di durare.
Presto ci stanca ciò che permane,
rocce di un mondo di stelle e gioielli,
noi anime-bolle-di-vento-e-sapone
sospinte in eterno mutare.
Spose di un tempo, senza durata,
per cui la rugiada su un petalo di rosa,
per cui un battito d'ali d'uccello
il morire di un gioco di nuvole,
scintillio di neve, arcobaleno,
farfalla, già volati via,
per cui lo squillare di una risata,
che nel passare ci sfiora appena,
può voler dire festa o portare dolore.
Amiamo ciò che ci somiglia,
e comprendiamo
ciò che il vento ha scritto
sulla sabbia.
H. Hesse, Scritto sulla sabbia, in La felicità. Versi e pensieri
[sel. G. Liberti]
Giochi ogni giorno con la luce dell'universo.
Sottile visitatrice, giungi nel fiore e nell'acqua.
Sei più di questa bianca testina
che stringo come un grapolo tra le mie mani ogni giorno.
A nessuno rassomigli da che ti amo.
Lasciami stenderti tra le ghirlande gialle
Chi scrive il tuo nome a lettere di fumo tra le stelle del sud?
Ah lascia che ricordi come eri allora,
quando ancora non esistevi.
Improvvisamente il vento ulula e sbatte la mia finestra chiusa.
Il cielo è una rete colma di pesci cupi.
Qui vengono a finire i venti, tutti.
La pioggia si denuda.
Passano fuggendo gli uccelli.
Il vento. Il vento.
Io posso lottare solamente contro la forza degli uomini.
Il temporale solleva in turbine foglie oscure
e scioglie tutte le barche che iersera s'ancorarono al cielo.
Tu sei qui.
Ah tu non fuggi.
Tu mi risponderai fino all'ulitmo grido.
Raggomitolati al mio fianco come se avessi paura.
Tuttavia qualche volta corse un'ombra strana nei tuoi occhi.
Ora, anche ora, piccola mi rechi caprifogli,
ed hai persino i seni profumati.
Mentre il vento triste galoppa uccidendo farfalle io ti amo,
e la mia gioia morde la tua bocca di susina.
Quanto ti sarà costato abituarti a me,
alla mia anima sola e selvaggia,
al mio nome che tutti allontanano.
Abbiamo visto ardere tante volte l'astro
baciandoci gli occhi
e sulle nostre teste ergersi i crepuscoli in ventagli giranti.
Le mie parole piovvero su di te accarezzandoti.
Ho amato da tempo il tuo corpo di madreperla soleggiata.
Ti credo persino padrona dell'universo.
Ti porterò dalle montagne fiori allegri,
copihues,
nocciole oscure,
e ceste silvestri di baci.
Voglio fare con te ciò che la primavera fa con i ciliegi.
P. Neruda, Giochi ogni giorno, in Venti poesie d'amore e una canzone disperata (1924)
Piangere fa bene. Attraverso la lente delle lacrime
la miopia della quotidianita' mette meglio a fuoco le emozioni più distratte.
E tutto si schiarisce.
E. Augusti [sel. G. Liberti]
[E. Augusti] «L’interplay non è solo frutto di impegno e conoscenza. L’interplay è magia», appunta Rino Arbore. E se di magia si parla, cade a pennello il suo Sweet Wind, di nuova uscita per la No Flight Records. L’album è una carezza, una sospensione alcolica all’interno della quale si disperdono i suoni della sua chitarra investigatrice e del flicorno grinzoso di Roy Nikolaisen. Ed è proprio la voce di Nikolaisen a contaminare di nord, ora alla tromba, ora al flicorno, un’esplorazione sonora che nasce, intima, più a sud. Camillo Pace (contrabbasso) e Gianlivio Liberti (percussioni) sono, insieme ad Arbore, l’anima pugliese del Rino Arbore Quartet, attivo dal 2008.
Sweet Windgode di un’omogeneità di suono palpabile, che irradia lo spazio di un’istantanea color seppia, la stessa che trovi nel booklet dell’album.
Nove tracce. “New Spring” è un germoglio. La circolarità inversa dei terzinati di Arbore, avvolti alla matrice dei suoi intervalli ampi, diventa un bel lick alla Bernstein. Godibilissimo. Dall’arco al pizzico e viceversa, Pace traccia itinerari sinuosi, scanditi e poi raccolti dal drumming felpato di Liberti. Evapora, denso. “Light On The Bridge” riavvolge, in un turbinio di gesti interrotti e frammenti acid allusivamente davisiani. “Blues 9” è un gemito che collassa nei noises di Nikolaisen. Liberti snocciola, calibratissimo, e prepara le intenzioni blue di Pace. “Photo from Italy” divaga, vintage. Si muove, seguendo l’istinto lirico di un’improvvisazione audace, precipitata in un ambiente equilibrato e raffinato, dove ogni pensiero estemporaneo trova quiete e distende, sempre dinamicamente a suo agio. Diventa un “Place”, da raggiungere in un ternario capriccioso, che dilata e ritorna, nel racconto languido della chitarra di Arbore. Altra inversione di marcia. “Snow Silence” esita, quindi riprende il discorso della track 2. Gli spazi sono rafficati, e resta ben poco di silente. Le arcate lunghe di Pace spingono, accelerando un percorso degenerativo che fa da controcanto all’intimismo diffuso dell’intero album. Comunque calzante e ricco. “Sweet Wind” è una dichiarazione di identità, coerente e ben delineata. L’avvio alla conclusione con “Bon Ton” spezza e infarcisce la storia di un’irriverenza che farebbe trasalire il buon Della Casa. Quasi bandistico nelle escursioni dinamiche e nei fraseggi, diverte e colora nei dialoghi Arbore-Nikolaisen. Un bel gioco. Chiude “Last Passage”, e Arbore ci mette la firma. Personale e evocativo di quella nuova stagione che ne aveva avviato il viaggio.